Aaron - J.P. Barnaby

Dreamspinner Press

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    Aaron - J.P. Barnaby

    Titolo: Aaron
    Autore: J.P. Barnaby
    Cover Artist: Pride Media
    Genere: M/M
    Prezzo: $6.99 Prezzo in dollari. Attualmente(24.03.2015) in offerta a $5.24
    Casa editrice: Dreamspinner Press

    Trama: Una storia della serie Sopravvissuti

    Non riesco a descrivere com’è voler gridare ogni minuto di ogni giorno.

    Una terribile notte di dolore ha distrutto la sua normale esistenza di adolescente e, due anni dopo, Aaron Downing si appiglia ancora alla speranza che, un giorno, tornerà a sentirsi un essere umano completo e funzionante. La sua vita, però, resta una serie costante di incubi, flashback e paura. Quando, nel primo semestre del college, gli viene assegnato Spencer Thomas come partner per un progetto di programmazione, Aaron decide che forse la ‘normalità’ è sopravvalutata. Anche solo imparare a controllare la paura gli basterebbe per trovare di nuovo la stabilità.

    Dopo aver sentito una conversazione dei genitori intenzionati a rinchiuderlo in un istituto –sacrificandolo per il benessere dei suoi fratelli – Aaron cerca disperatamente di trovare un modo di gestire il suo danno psicologico o anche di fingere la normalità. Il suo nuovo psicologo riuscirà a controllare i propri demoni abbastanza a lungo da curare Aaron oppure aggraverà solo la situazione?

    Cercando disperatamente di comprendere la sua attrazione per Spencer, Aaron si appiglia alla sua sanità mentale con entrambe le mani quando questa minaccia di sfuggire al suo controllo.

    Estratto offerto dalla Dream sul sito:
    Capitolo Uno





    IL CUORE del ragazzo urtò contro le costole mentre le lenzuola lo tenevano legato con lacci di cotone avvolti attorno alle braccia e alle gambe. L’alito cattivo esplose a più riprese dai suoi polmoni mentre tentava di liberarsi dalla loro presa e cercava, senza riuscirci, di tenere a bada un cieco terrore. Il sudore gli colò lungo la schiena in quello spazio buio e opprimente, mentre liberava le braccia dalle loro costrizioni notturne. Mentre cercava gli angoli bui della sua stanza, passarono diversi minuti prima che la paura si trasformasse in rabbia incandescente. Erano trascorsi due anni dall’aggressione ma, notte dopo notte, i suoi sogni continuavano a torturarlo. Era un miracolo che riuscisse a prendere sonno. Anche con tutte le piccole pillole che i suoi cosiddetti dottori lo costringevano a prendere, si sentiva come un cadavere ambulante.

    Questa descrizione gli calzava a pennello perché tutto dentro di lui era morto.

    Respinse l’ondata di nausea che lo assaliva ogni mattina quando l’effetto delle medicine svaniva e allontanò le lenzuola. Guardando tra le pesanti tende blu, si concentrò sul cielo del Midwest. Tutte le sue giornate erano piene di ripetizioni e di abitudini, alcune più strane di altre. Per esempio, lo strano gioco della roulette russa che faceva da solo ogni mattina stabiliva che se il cielo era blu e splendeva il sole, poteva trovare la forza dentro di sé per affrontare un’altra giornata. Se invece il cielo era scuro e minaccioso, si sarebbe girato sul letto su un fianco, con la faccia rivolta verso il muro, e si sarebbe infilato di nuovo sotto le coperte, fin sopra la testa. Come sempre, sua madre sarebbe venuta a controllarlo, volendo solo dargli un bacio sulla fronte o accarezzargli i capelli scompigliati dal sonno, ma non lo faceva mai. Cercava di non essere in lutto per la perdita di suo figlio ma di accogliere il ragazzo distrutto, sfigurato che era rimasto al suo posto.

    I forti raggi del sole gli fecero strizzare gli occhi mentre osservava il vuoto tra le tende, perciò si sforzò di alzarsi. La maglietta a maniche lunghe, inzuppata del sudore di una mattina di fine estate, gli cingeva il corpo. Il ragazzo si portò gli abiti puliti al petto, con i calzini leggeri che scivolavano sul pavimento di legno mentre si trascinava in bagno per iniziare la sua routine quotidiana. Tutto nella sua vita si svolgeva attorno a una routine. Ogni stato d’animo, attività e, sembrava, anche ogni pensiero, erano controllati e monitorati scrupolosamente dalle medicine. Avrebbe voluto passare una giornata senza essere quasi immobilizzato dalla paura e dal dolore e tornare a sentirsi un essere umano completamente funzionante, solo per una volta.

    A diciotto anni, la sua vita era finita.

    Il pavimento di legno massello, le tende a pannelli pesanti, i mobili di legno di ciliegio e la biancheria da letto blu marina davano alla sua stanza una particolare atmosfera tetra, perciò le cose si rallegravano un po’ nel bagno attiguo. Decorata con toni azzurro e pesca, la stanza aveva un tema oceanico fatto di bagnasciuga e conchiglie. L’arredamento avrebbe dovuto calmarlo, ma non sortiva alcun effetto. Lui probabilmente odiava quella stanza più di qualsiasi altra cosa in quella casa – la sua nudità, il suo riflesso, la sua vergogna erano tutti in mostra lì, messi in duro risalto dalle lampadine a risparmio energetico sopra il lavandino. Il ragazzo aprì l’acqua calda nella doccia, portandola al suo livello di tolleranza più alto, e indietreggiò. La maglietta a maniche lunghe e i pantaloni della tuta, che sembravano diventare ogni settimana più grandi, caddero sul pavimento con la biancheria intima e i calzini. Fissando i disegni sbiaditi sulla tenda della doccia pur di non guardare il suo corpo, spostò la plastica ed entrò nella vasca.

    Mentre l’acqua gli scrosciava sul volto e sui capelli, riusciva a vedere le sue cicatrici a una a una, anche con gli occhi chiusi. Erano marchiate a fuoco sulle sue retine come una mappa orripilante dei suoi errori, e sembrava che anche una tregua momentanea dalla loro presenza fosse una cosa al di fuori della sua portata. Alzò lo sguardo e vide lo shampoo, il bagnoschiuma e le altre cose necessarie organizzate attentamente nella griglia che pendeva dall’asta della doccia. Ogni cosa era al suo posto – tutto tranne lui – lui non aveva più alcun posto. Non viveva; non stava bene da nessuna parte, semplicemente esisteva. La salvietta gli graffiò la pelle mentre si lavava in modo distaccato, efficiente, facendo grandi sforzi per smettere di sfregare quando la sua pelle era solo rosa e non rossa. Anche se era passato più di un anno da quando sua madre lo aveva trovato in ginocchio nella doccia mentre strofinava la sua pelle a sangue, non voleva spaventarla di nuovo a quel modo. Quella mattina, pochi mesi dopo essere stato dimesso dall’ospedale, aveva avuto uno dei suoi incubi più vividi e realistici. Quando sua madre lo aveva convinto a uscire dalla doccia, si era seduta con lui sul pavimento del bagno tenendosi a un palmo di distanza mentre lui si applicava dell’aloe sulle membra piene di cicatrici. Il modo in cui lei si sforzava di tenere le mani ferme ai lati del corpo aveva spezzato qualcosa dentro di lui. Lei voleva disperatamente aiutarlo, ma non poteva.

    Nessuno poteva farlo.

    Lei lo aveva riempito di tranquillanti, usando le scorte che le aveva dato il suo ultimo strizzacervelli, e gli aveva raccontato storie di quando era bambino, mentre lui fissava il soffitto con lo sguardo assente e cercava di trovare un significato nei piccoli motivi nell’intonaco. La sicurezza e l’innocenza che aveva provato da bambino gli erano state strappate via, quasi come se non fossero mai esistite. Non ne aveva fatto parola a sua madre; era rimasto tranquillo mentre lei gli raccontava quanto gli piacesse giocare nella vasca da bagno una volta. Si sforzava così tanto di cercare di riportare quel bambino a lui. Diversi psichiatri avevano usato la stessa tattica, cercando di riportarlo ai primi anni della sua adolescenza. Sua madre, tuttavia, era andata anche più indietro, tentando di tutto pur di aiutare suo figlio. Non aveva mai funzionato ma lui sperava che la cosa riuscisse, anche se solo per il bene di sua madre. Sfortunatamente per entrambi, le fantasie da sommozzatore o scienziato pazzo che aveva vissuto accanto alla vasca da bagno con bicchieri di carta e bolle di sapone erano finite. Quel ragazzo era morto, abbandonato sul pavimento di un garage che puzzava di benzina, paura e sangue.

    Dopo aver chiuso l’acqua, si allungò, prese l’asciugamano dalla rastrelliera e lo portò nella doccia. C’era molto vapore nella stanza senza finestre e il profumo di bagnoschiuma, sebbene quasi impercettibile, la permeava. Il ragazzo si passò un asciugamano morbido sulle braccia, sulle gambe e sul busto con movimenti automatici e distratti, ma la sua pelle era ancora bagnata quando scostò la tenda e afferrò in modo disperato i vestiti. Si rifiutò di aprire la porta del bagno o anche aspettare che la ventola dissipasse parte del vapore. Mentre si vestiva, la camicia gli aderì alla pelle, ma solo quando fu tutto coperto e le sue cicatrici furono nascoste riuscì a fare un respiro profondo. Il pettine nero gli tremava nelle mani mentre si sistemava i capelli corti con praticità, non usando gel, come avrebbero fatto gli altri ragazzi della sua età. Semplicemente non aveva importanza. La gente vedeva solo una cosa quando lo guardava: la brutta cicatrice frastagliata che gli tagliava il viso dall’orecchio destro al centro della gola. Perciò, davvero, il modo in cui si pettinava non aveva importanza – nessuno ci badava comunque. I suoi genitori avevano preso in considerazione la chirurgia plastica, ma Aaron non riusciva a sopportare l’idea di essere tagliato, lacerato, sfigurato, toccato da altre mani, anche se di dottori.

    Il ragazzo scacciò quel pensiero dalla mente e iniziò a lavarsi i denti mentre fissava il dipinto sopra al lavandino. Calmante, quasi rilassante, era la parte migliore della sua routine mattutina. C’erano pace e serenità nel complesso di forme geometriche che riempivano la cornice nera laccata. All’inizio, quando era tornato dall’ospedale, bendato e quasi inabile, aveva spaccato lo specchio del bagno dal muro. Sua madre lo aveva trovato urlante, con le mani lacerate, come se distruggere lo specchio potesse rimuovere l’immagine del suo volto rovinato dalla sua mente. Non aveva pensato di mettere qualcosa al posto dello specchio. Tuttavia sua madre, la persona che lo conosceva di più, sentiva in qualche modo che quel dipinto sarebbe stato meglio di un muro spoglio, scolorito. Lo aveva fatto appendere da suo padre mentre lei comprava accessori da abbinare. C’erano voluti quasi sei mesi perché Aaron capisse che lei aveva cercato gli asciugamani perfetti e comprato delle belle saponette a forma di conchiglia perché non sapeva più come aiutare il rottame di suo figlio. Lui aveva capito anche che lei aveva ragione: il muro spoglio gli avrebbe ricordato costantemente perché lo specchio non c’era più. Sarebbe stato quasi brutto quanto lo specchio stesso.

    Quasi.

    Lasciando l’asciugamano e i vestiti sporchi sul pavimento, il ragazzo prese il suo lettore MP3 e un libro tascabile stropicciato dal comodino disordinato e scese lentamente le scale, dirigendosi in cucina. Si sentiva quasi un bambino nei suoi abiti larghi – abiti che gli andavano bene solo pochi mesi prima. Rimase vicinissimo alla ringhiera, piegato su sé stesso, e si fermò sull’ultimo scalino per guardarsi intorno.

    “Buongiorno, Aaron,” disse suo padre con voce allegra, salvo poi perdere il sorriso quando il ragazzo fece appena un cenno con la testa e oltrepassò il tavolo accanto al quale sedeva il genitore, rilassato e immerso nella sua routine mattutina. Il grande tavolo elegante, dove la sua famiglia cenava insieme ogni sera, faceva da punto d’unione tra la cucina e il soggiorno aperto. Aaron era grato per quel design arioso perché aveva incominciato a sentirsi molto claustrofobico con la sua famiglia attorno – soffocato dalle attenzioni di sua madre, dalla delusione di suo padre e dal risentimento dei suoi fratelli.

    I suoi fratelli minori, Allen e Anthony, non erano ancora scesi. Aaron, Allen e Anthony – le loro tre belle A, avevano scherzato i suoi genitori, finché la prima A non era diventata una F.

    Come in una qualsiasi altra mattina della settimana, suo padre era seduto a bere caffè e a leggere il giornale. I pantaloni e la camicia erano stirati alla perfezione e la sua cravatta ben annodata. L’unica cosa che mancava era la giacca che era appesa dietro alla sedia, pronta a completare il quadro perfetto che lui rappresentava. John Downing era un simbolo di stabilità e successo; la cosa evidenziava l’inettitudine del figlio ad affrontare la vita. Quasi troppo bello, suo padre portava i capelli neri in un taglio efficiente ed elegante, da uomo d’affari, con minuscole striature grigie, senza dubbio causate in gran parte da Aaron, che gli conferivano un’aria distinta. Tuttavia, erano i suoi occhi quelli che lo tradivano. I suoi chiari occhi azzurri vibranti, che i più avrebbero descritto come gentili, contenevano una tristezza profonda. La luce che si era accesa alla nascita del suo primo figlio si era affievolita. Aaron non guardava quasi più suo padre, forse anche meno di quanto guardasse chiunque altro. Prima che la sua vita fosse distrutta in un modo così brutale in quel garage due anni prima, Aaron era stato la sua copia. Aveva lo stesso mento, lo stesso naso, gli stessi capelli neri e gli stessi occhi blu. Attraente e popolare, Aaron era stato proprio come suo padre, che faceva il legale di una società nel centro di Chicago: intelligente e di successo. John Downing era un promemoria costante dell’uomo che suo figlio non sarebbe mai diventato.

    Aaron si appoggiò alla superficie splendente del bancone della cucina e prese una banana. Non aveva fame, ma mangiare qualcosa lo aiutava a evitare le discussioni costanti con sua madre riguardo alla sua perdita di peso. Anche se non lo aveva mai detto ad alta voce, non era importante se mangiava, se indossava la cintura di sicurezza o se guardava da entrambi i lati prima di attraversare. Era morto comunque: che differenza faceva? Era solo una questione di tempo prima che il suo corpo se ne rendesse conto e lui potesse finalmente avere un po’ di pace.

    Avvicinandosi al muro per puro istinto, Aaron udì dalle scale i passi pesanti di quelli che potevano essere solo i suoi fratelli minori. Lo salutarono entrambi con un veloce “Ehi, amico” prima di andare a tavola. Le sedie strisciarono e grattarono contro il pavimento di legno mentre i ragazzi si sedevano a tavola con il padre. John Downing iniziò a parlare con Anthony di una giocata dell’ultima partita di calcio del ragazzino e non ci volle molto prima che entrambi i ragazzi finissero a ridere e scherzare con lui, mentre Aaron stava in un angolo della cucina, quasi come se fosse stato dimenticato. Solo i loro sguardi veloci, ansiosi, tradivano che non se ne erano affatto scordati.

    Per oltre due anni era stato così: cenni educati, conversazioni necessarie, i più brevi possibili. Le persone lo trattavano come una bambola di porcellana: una parola sbagliata e lui si sarebbe rotto. Perlopiù era triste ma vero. Anche se i suoi fratelli minori sapevano, almeno a livello astratto, quello che gli era capitato, a volte dicevano delle cose che lo facevano dare di matto. Magari Allen parlava di Juliette o Anthony gli diceva che lo avrebbe ucciso se non smetteva di ticchettare con la penna che aveva in mano, salvo poi restare sconvolti dalle conseguenze dei loro scivoloni verbali. Certo, qualsiasi persona normale avrebbe sorvolato su quei commenti, ma Aaron era lontano dall’essere normale.

    Era diventato un completo estraneo per la sua famiglia.

    All’epoca in cui il mondo di Aaron era cambiato, Allen aveva quattordici anni e Anthony solo dieci. Aaron sapeva che, mentre si stava ancora riprendendo in terapia intensiva, i suoi genitori si erano seduti con i suoi fratelli e avevano spiegato loro la situazione per quanto potevano, visto la loro giovane età. Allen aveva capito quasi tutto, ma avevano cercato di proteggere Anthony da alcune sconvolgenti verità. Sfortunatamente, Aaron non poteva nascondere tutte le sue cicatrici, perciò alla fine Anthony aveva dovuto affrontare di punto in bianco la brutalità di quello che era stato fatto al suo eroe. Quando Aaron all’inizio era tornato dall’ospedale, i piccoli Downing non avevano capito che il loro fratello maggiore, quello con cui avevano giocato a rincorrersi, quello che li aveva portati al cinema e in sala giochi, era una persona diversa. Non era divertente. Non era socievole. Era spaventoso e urlava nel sonno ogni notte, terrorizzandoli al punto che avevano cominciato a dormire nel seminterrato, arredato in fretta e furia. Aaron si era offerto, con riluttanza, di spostarsi lui laggiù, ma le mura di cemento e il freddo pavimento in calcestruzzo gli ricordavano il luogo dove quegli uomini lo avevano portato. Non era riuscito nemmeno a scendere le scale. Grazie a Dio, i suoi genitori lo volevano vicino per poterlo aiutare.

    Non era passato però molto tempo prima che cominciassero a sedarlo.

    Sua madre era già vicino ai fornelli a preparare le uova, quando Aaron si destò dai suoi pensieri. Dal momento che era sempre così tranquillo, né i suoi genitori né i suoi fratelli si erano accorti che non aveva prestato attenzione a nulla intorno a lui negli ultimi quindici minuti. Aaron lo faceva di frequente: si isolava completamente dal mondo esterno. Questi periodi di distacco completo da tutto lo spaventavano. Era terrorizzato che un giorno sarebbe potuto restare intrappolato nella sua testa senza trovare il modo per uscirne di nuovo.

    La sua testa era un posto fottutamente spaventoso in cui stare.

    Michelle Downing portò i piatti con uova, bacon e toast a suo marito e ai suoi figli più piccoli a tavola. Aaron non aveva neanche notato che lei stava cucinando vicino a lui. Distolse lo sguardo dai suoi lineamenti stressati e dalle ciocche di capelli prematuramente grigie, tutto a causa sua. Aaron aveva preso dalla sua figura minuta la statura bassa, ma quella era una delle poche somiglianze tra Michelle e il figlio maggiore. Se Aaron aveva ereditato i capelli neri del padre, e così anche Anthony, Allen e sua madre avevano invece dei riccioli castani. Aaron era l’unico figlio ad avere gli occhi blu del padre. I suoi fratelli avevano i dolci occhi castani della madre.

    Una volta erano stati la tipica famiglia unita americana: John lavorava mentre sua moglie restava a casa a crescere i loro ragazzi. Ora i figli più piccoli erano lasciati per lo più da soli mentre la loro madre cercava di prendersi cura del fratello maggiore guasto. Non erano più andati in vacanza perché Aaron non affrontava bene il cambiamento. Uscivano raramente a cena perché Aaron non si trovava bene in gruppo. Facevano i turni per andare alle partite di calcio di Anthony o agli incontri di lotta di Allen perché non volevano lasciare solo Aaron.

    Era come se tutti stessero solo sopravvivendo, nell’oscurità, senza alcuna luce all’orizzonte.

    Aaron osservò la sua famiglia parlare tranquillamente mentre mangiavano a tavola e sentì il dolore lancinante della solitudine. Loro erano una famiglia felice e lui era solo il pazzo che viveva al piano di sopra. Fisicamente, tutto in casa era lo stesso, dagli accessori a forma di mela in cucina alla tv a schermo gigante del soggiorno, dove una volta guardavano il baseball insieme. Lui era diverso. Non c’era più un posto per lui, anche se la sua sedia vuota attorno al tavolo lo aspettava. Senza dire un’altra parola, ripose la banana non sbucciata di nuovo sul bancone e oltrepassò il tavolo dove la sua famiglia gli lanciava sguardi furtivi. Aprendo la porta scorrevole a vetri dietro a suo padre, che era a capotavola, si diresse verso il loro grande patio e chiuse la porta dietro di sé. Si sentiva meglio lì fuori, era meno soffocante, c’erano minori aspettative. Si sedette su una delle sedie fuori, guardò il piccolo giardino ben tenuto e pensò a quanto odiasse i giorni come quello, giorni in cui non riusciva a spegnere la mente.

    Strizzò gli occhi al sole del mattino mentre sua madre lo raggiungeva sul patio. Con la coda dell’occhio vide che indossava una larghissima felpa grigia che apparteneva probabilmente a suo padre. Gli porse una colazione pronta da bere. La prese, aprì il coperchio e la ingollò in un unico lungo sorso. Il signor Handley della porta accanto uscì sul proprio terrazzo mentre Aaron restituiva a sua madre il contenitore vuoto. Aaron sentiva gli occhi del vecchio addosso dalla recinzione e si chiese se lui sentisse le sue urla di notte. Udì il sospiro tranquillo di sua madre mentre si abbassava per aggiustargli una ciocca ribelle di capelli e lui si allontanò di scatto. Odiava non riuscire a sopportare di essere toccato, nemmeno da sua madre. Con uno sforzo evidente, lei cercò di non manifestare sul volto il dolore mentre lui alzava lo sguardo, ma poi si voltò e tornò in casa senza dire una sola parola.

    Prendendo il lettore musicale e il libro dalla tasca si sedette su una sdraio lì accanto, ignorò il vicino imponente e si perse nella vita di qualcun altro.





    SPENCER THOMAS prese il secchio della spazzatura da sotto il lavandino e fece l’inventario. Sei bottiglie vuote di Samuel Adams e una di Jack Daniel. Sapeva che la bottiglia di Jack Daniel era quasi vuota dalla sbronza del weekend, ma la cosa non lo fece sentire meglio. Doveva parlare con suo padre. Da quando il bravo dottore aveva mollato la professione, l’abuso di alcool era peggiorato. Gli incubi erano peggiorati. Le loro vite erano peggiorate.

    Con un sospiro, chiuse la porta dell’armadietto e lasciò in pace la tomba dell’alcool. Ci sarebbero volute ore prima che suo padre riemergesse dalla caverna buia che chiamava stanza da letto, perciò Spencer si diresse lentamente verso il salone e la sala dei giochi. Prese la fotografia di sua madre dalla scrivania e guardò il suo viso per la milionesima volta. Miranda Thomas era morta circa tre mesi prima del termine della gravidanza, lasciando il figlio prematuro nelle mani di suo padre, Henry. Spencer aveva sentito dei racconti su sua madre dai nonni e dalla zia Nelle, ma mai da suo padre. Non c’era bisogno che dicessero a Spencer che aveva preso i suoi capelli castani arruffati e i profondi occhi nocciola da lei. Anche le sue lentiggini e la carnagione pallida erano un dono fattogli per tenere viva sua madre in lui. Da suo padre aveva ereditato il mento piccolo, il naso all’insù e una profonda mancanza di autocontrollo. Tutte queste caratteristiche ne facevano una combinazione interessante.

    Il telefono gli vibrò nella tasca mentre sprofondava su una sedia imbottita di pelle davanti alla sua scrivania. Lo prese e controllò il display.

    Campanello

    Il messaggio sarebbe sembrato criptico per chiunque altro, chiunque potesse sentire e non ricevesse un messaggio dalla porta d’ingresso. Dopo essere saltato giù dalla sedia, ripercorse il tragitto fatto in precedenza e tornò di corsa nel salone. Invece di andare a destra per dirigersi in cucina, girò a sinistra alla fine del corridoio, verso il soggiorno. C’era una sagoma dietro la porta a vetri satinati. Il tappeto scivolò sotto i suoi piedi nudi mentre si fermava di colpo e ruotava la maniglia. Un giovane e sexy ragazzo delle consegne in pantaloncini aspettava sulla soglia della porta con una grossa scatola in equilibrio su un braccio. Spencer fissò per un lungo momento la struttura muscolare dell’uomo, la pelle perfetta e il sorriso malizioso prima che il movimento di quelle dolci labbra lo distogliessero dai suoi pensieri.

    “Spencer Thomas?” chiese il ragazzo, e Spencer si ritrovò distratto dal modo sensuale in cui la bocca si curvava attorno a ogni lettera che pronunciava. Una lingua rosa scuro inumidì quelle labbra sottili ma sensuali, i cui angoli si trasformarono in un sorriso quando Spencer annuì.

    “Bene, allora signor Thomas, ho un pacco per lei,” disse con espressione allegra. Spencer passò un lungo momento a squadrare volutamente il corpo tonico del ragazzo. Una ciocca di capelli neri usciva dal brutto cappello da baseball blu scuro, che s’intonava al resto della noiosa uniforme. Spencer vide la targhetta col nome, ‘Nick’, cucita sul pettorale sinistro. Distolse di nuovo lo sguardo dall’altro pacco del ragazzo per vedere l’interesse crescere in quegli occhi grigi come l’acciaio.

    Nick porse a Spencer un dispositivo elettronico e gli chiese di firmare per la consegna. Come in un film porno di scarsa qualità, si leccò le labbra e lo guardò mentre Spencer, che stava lì con nient’altro che un paio di pantaloni sbiaditi del pigiama e un sorriso, firmava. Spencer restituì il dispositivo al ragazzo delle consegne che poi gli lasciò il pacco. Dando uno sguardo all’indirizzo del mittente, vide che era della Dell, il suo nuovo portatile per la scuola. Ottimo. In quel momento, tuttavia, aveva un giocattolo diverso in mente con cui aveva voglia di giocare. La stoffa sottile si tirò sotto la spinta del suo uccello che s’induriva. Spencer guardò il volto di Nick mentre fissava il bozzo con crescente incanto, evidentemente indeciso su cosa fare.

    Poggiò sul pavimento il portatile lontano dalla soglia e si avvicinò all’attraente fattorino. Nick passò il dispositivo per la firma nella mano sinistra e usò la destra per grattarsi il collo. Nervoso, che dolce. Avvicinandosi lentamente, Spencer prese il dispositivo dalle mani di Nick e lo mise sopra la scatola del computer. Si erano quasi toccati. Erano mesi che Spencer non faceva sesso. L’incontro con quel ragazzino nel bagno della scuola dopo gli esami finali sembrava avvenuto secoli prima e lui era stato intimo con la propria mano per troppo tempo.

    “È… è quella la mia mancia?” chiese. Bingo. Spencer prese la mano di Nick e la strofinò contro il suo uccello gonfio, annuendo lentamente. Nick aggiunse con voce flebile: “Sei un tipo taciturno, non è vero?” Spencer intrecciò le dita con quelle di Nick e lo tirò, chiedendogli in silenzio di seguirlo. Sapeva troppo bene, per sua fottutissima esperienza, che se avesse parlato, sarebbe finita. Nick avrebbe pensato che era ritardato e lui avrebbe perso la sua erezione. Il dolce ragazzino delle consegne lo seguì nel salone fino alla stanza per gli ospiti senza dire una parola. Non desiderava particolarmente scopare nella camera con i motivi floreali e iperfemminile che sua zia usava quando faceva loro visita, ma Spencer non voleva portare il ragazzo nella sua stanza. Non voleva correre il rischio che suo padre si svegliasse per rovinargli il divertimento. A suo padre non sarebbe importato sapere che Spencer fosse sessualmente attivo, ma era difficile scopare chiedendoti se il tuo genitore potesse sentirti. Prendendo un preservativo e una bottiglia di lubrificante che teneva nascosti nel bagno dall’altra parte del corridoio, li mise entrambi sul comodino con il centrino di pizzo perché Nick li vedesse. Quello in genere preveniva qualsiasi strana conversazione sul sesso sicuro.

    Le loro bocche si trovarono quando loro s’incontrarono al centro della stanza. Nick si tolse le scarpe e Spencer sentì il suo gemito nel bacio. Tolse il berretto dalla testa di Nick e passò la mano tra i suoi ricci morbidi e arruffati, liberati all’improvviso dalla loro prigione. Sembravano seta umida sotto le sue dita. La bocca di Spencer si fuse con quella del ragazzo mentre lui si sbottonava la camicia dell’uniforme e la lasciava scivolare lungo il corpo abbronzato, le braccia muscolose, fino a farla cadere sul pavimento ai loro piedi. Fece scorrere le dita, languide, dietro al collo del suo nuovo amante, posandole sulla sua morbida spalla. Nick interruppe il contatto e tempestò di baci la mascella di Spencer.

    Un gemito risuonò dal petto di quest’ultimo, grattandogli la gola mentre usciva. Muovendo le mani tra i loro corpi surriscaldati, Spencer sbottonò i pantaloni dell’uniforme di Nick prima di abbassargli la cerniera. Riuscì a sentire l’erezione del ragazzo che premeva contro la stoffa, che cercava di liberarsi, perciò lo aiutò. Infilò la mano negli stretti pantaloncini di poliestere e poi nelle mutande di cotone che Nick indossava, sentendo il respiro caldo e le labbra del ragazzo delle consegne vibrare sul suo collo.

    Dio, era bello.

    La parte posteriore delle ginocchia di Spencer toccò il letto e Nick cadde su di lui. Il gonfio piumone rosa li circondò gonfiandosi mentre si baciavano con una passione che sconfinava nell’aggressione e Nick muoveva i fianchi contro quelli di Spencer in un ritmo indefinibile, sgraziato. I loro respiri si mescolarono mentre lui afferrava il sedere di Nick e il suo uccello lottava contro il pigiama. Alla fine, dopo quella che sembrò un’eternità, il suo amante improvvisato gli infilò la mano nel pigiama e lo afferrò. Il vecchio letto di quercia si spostava mentre si muovevano l’uno contro l’altro, duri e caldi. Per una spinta particolarmente entusiasta, la testiera del letto sbatté contro il muro e li fece sobbalzare. Spencer guardò sopra la sua testa, sempre attento alle strane vibrazioni, ma non vide niente di rotto.

    Abbracciando stretto Nick, Spencer fece rotolare entrambi fino a inginocchiarsi tra le cosce del suo amante. Si ritrovò con delle gambe forti attorno ai fianchi, mentre i talloni gli premevano il sedere per farlo avvicinare ancora di più. Oh sì, quel ragazzino era il passivo perfetto. Grazie a Dio. Odiava fare quel tipo di conversazione. Per quanto Spencer volesse andarci piano, godersi ogni momento condiviso, non permise a sé stesso di farlo. Non aprì quel luogo buio del suo cuore dove viveva la speranza – la speranza che potesse trovare ancora qualcuno che lo volesse, anche se era diverso.

    Un altro gemito esperto, un gemito che celava vero desiderio, perché stare stretti a Nick, il passionale, eccitato Nick, gli aveva fatto venire l’uccello duro. La gola del ragazzo vibrava sotto le labbra di Spencer. Si staccò e osservò l’esaltante eccitazione sul suo volto.

    “Ti prego… succhiami,” disse Nick. Merda. Aveva detto “succhiami” o “scopami”? Aveva buttato la testa all’indietro mentre parlava, quindi Spencer non sapeva dirlo con esattezza. Ma sì, aveva davvero importanza? Il significato era dannatamente chiaro. Afferrò i pantaloncini dell’uniforme di Nick e li abbassò fin sopra ai calzini. Poi, gli abbassò le mutande facendole scivolare per quelle gambe lunghe e muscolose, accarezzandogli intanto un fianco. Il ragazzo liberò i piedi dalla stoffa restante e allargò le gambe per avere l’approvazione di Spencer.

    Spencer approvava di sicuro.

    L’uniforme nascondeva un corpo fantastico – braccia scolpite, forti e sode a forza di spostare pacchi per lavoro, degli addominali a tartaruga che facevano sentire Spencer quasi flaccido al confronto e un uccello spesso che puntava dritto, come a mostrargli la via. Spencer infilò i pollici nell’elastico dei pantaloni del pigiama verde sbiadito e li abbassò fino al sedere, mentre si chinava in avanti per succhiare il cazzo di Nick. Sentire quel peso sensuale sulla lingua lo fece palpitare. Con attenzione, sollevò prima un ginocchio e poi l’altro per portarsi i pantaloni alle caviglie prima di calciarli via. Allargando di più le gambe di Nick, decise che tutto quello che importava in quel momento era quel ragazzo sexy aperto per lui.

    Percorse con la lingua ogni piega del prepuzio mentre fissava gli addominali contratti davanti ai suoi occhi. Spencer non li chiudeva mai durante il sesso, nemmeno una volta. Non poteva permettersi quel tipo di vulnerabilità, specialmente con qualcuno che non conosceva. Una mano tenera gli accarezzò i lati del viso e lui vi si appoggiò. Quell’affettuosità inattesa gli era così estranea che il suo petto si contrasse al percepirla. Poi immaginò l’espressione del suo nuovo amico se avessero cercato di conversare e quella stretta andò via. Era una brusca e veloce scopata, niente di più.

    Guardando il viso di Nick meglio che poté, dal momento che aveva la testa tra le gambe del ragazzo, Spencer gli tenne l’uccello alzato e leccò più in basso. Prese in bocca un testicolo rasato e ne percorse la pelle sensibile e irregolare con la lingua. Nick riappoggiò la testa sul cuscino e, anche se non poteva vedergli la bocca, Spencer aveva intuito che il ragazzo non aveva detto comunque nulla di comprensibile. L’odore di sudore, muschiato, e di qualche tipo di sapone profumato gli riempì le narici mentre affondava sempre di più il viso tra le gambe di Nick e gli leccava il solco tra le anche e le cosce. La mano sulla sua testa si fece più insistente, perciò Spencer trascinò la lingua appuntita dalla base di quel notevole uccello fino alla sua sommità, prima di ingoiarlo tutto. Cercò di non soffocare quando la punta gli scivolò in fondo alla gola con uno scatto dei fianchi di Nick.

    Si ritrasse e usò la mano per accarezzare la parte che non era tra le sue labbra, quasi baciando la sua mano ogni volta che faceva su e giù con la testa. Una precisa torsione della mano di Spencer fece contorcere Nick. Dio, era sexy. Alzando di nuovo lo sguardo, non vide ancora nessuna parola comprensibile affiorare sulle sue labbra, perciò staccò la bocca dal suo cazzo e prese il preservativo e il lubrificante. Tenendoli in mano, attese un “sì”, un cenno, qualcosa che gli desse il via libera.

    Grazie a Dio, ebbe entrambi.

    “Dio, sì, amico. Scopami,” disse Nick con un cenno del capo quasi violento. Sembrava che fosse troppo perso nell’annebbiamento dell’amplesso per rendersi conto che Spencer non aveva ancora parlato.

    Mentre s’inginocchiava e apriva il preservativo, Nick tentò di mettersi prono, ma Spencer lo fermò mettendogli una mano sul petto. Doveva essere in grado di vedere il viso del ragazzo nel caso in cui questi volesse che lui si fermasse. Spencer aveva solo le espressioni del viso e il movimento labiale a guidarlo. Il suo partner non si oppose; si portò invece le ginocchia al petto in modo che Spencer potesse passargli il lubrificante nel culo. Nessuna discussione, nessun problema.

    Mentre premeva la punta del suo uccello contro la piccola apertura, guardò il viso di Nick per vedere se avesse cambiato idea. Quando non vide alcun segnale in tal senso, continuò e sentì lo sfintere cedere mentre lui sprofondava nel corpo del fattorino. Il gemito sembrò partirgli dai piedi fino ad attraversare i suoi denti stretti. Nick era stretto e caldo, meravigliosamente accogliente. Spencer spinse ancora più a fondo, lentamente, fino a che le sue cosce non toccarono la pelle del ragazzo. Quest’ultimo tremava sotto di lui, pieno di desiderio e di voglia, e non c’era bisogno che Spencer sentisse per capire di cosa avesse bisogno.

    Inarcando la schiena, Nick serrò gli occhi e costrinse l’uccello di Spencer a mantenere il contatto con la sua prostata, mentre questi spingeva sempre più in profondità. Spencer si allungò e afferrò uno dei cuscini. Lo mise sotto la testa di Nick, per alzarla di qualche centimetro, si sporse e baciò intensamente il ragazzo. Quando Nick circondò la vita di Spencer con le gambe, l’incontro toccò un livello d’intimità cui quest’ultimo non era abituato, ma lui vi si aggrappò comunque.

    Mosse il bacino freneticamente e si assicurò di mantenere l’angolazione giusta per colpire il punto più sensibile di Nick, che iniziò a masturbarsi. Sul corpo di Nick si formò un sottile velo di sudore e il suo odore dolce riempì i sensi di Spencer. Amava guardare le linee della gola del ragazzo mentre questi gettava la testa all’indietro nell’abbandono del piacere. La mano che era sui suoi bicipiti strinse forte e il corpo sotto di lui tremò, mentre correvano verso il meraviglioso orgasmo che stava per giungere per entrambi.

    “Fermo…,” disse Nick, e Spencer impiegò un attimo, a causa della mente annebbiata dalla lussuria, per rendersi conto che aveva detto in realtà “vengo”. Passò le mani sotto le spalle di Nick, le strinse e stantuffò più forte quel ragazzo voglioso e docile. Spencer smise di osservare se Nick avrebbe detto altro e sprofondò il viso nel suo collo sudato.

    Un grido animalesco vibrò contro la sua spalla, mentre Nick rabbrividiva sotto di lui, pompando un liquido caldo e viscoso sul suo stomaco. Ecco fatto, piccolo. Affondò una volta, due e poi ancora mentre cercava di prendere piacere dal suo partner, un ragazzo che probabilmente non avrebbe mai più rivisto dopo il loro breve incontro. Sentì un formicolio, una piccola scossa pulsargli nei testicoli e spinse ancora più forte dentro Nick, c’era vicino… così fottutamente vicino. Il proprio grugnito lo colse di sorpresa, mentre il suo uccello si svuotava nel preservativo, dentro il ragazzo, in profondità. Una. Scopata. Profonda. Sexy. Straordinaria.

    Tutto nel suo cervello si focalizzò su quella singola, universale sensazione di beatitudine. Respiri affannosi e rauchi uscirono dai suoi polmoni e, senza pensarci, baciò il collo, le spalle del ragazzo e cercò di fargli capire quanto quel loro incontro avesse significato per lui. Un ragazzo così carino, dolce e sorridente, avrebbe voluto portarlo fuori a cena o anche solo a prendere un caffè. Sfortunatamente, sapeva che la gente di solito guardava i sordi in due modi: come novità o come ritardati. Quando parlava e la sua voce non aveva la stessa cadenza che tutti sulla terra sembravano acquisire altrettanto facilmente quanto respirare, credevano che fosse ritardato o un malato mentale. Parlavano più forte, più lentamente, il che certo non lo aiutava nemmeno un po’ se non riusciva a leggere le loro labbra. Perciò non si preoccupavano affatto di parlare con lui. Gli parlavano attorno. Lo trattavano come se fosse una sorta di animale, incapace di una conversazione razionale.

    Perciò non dava loro alcuna possibilità.

    “O mio Dio, è stato eccezionale,” disse Nick mentre usciva dallo stato confusionale dopo l’orgasmo, baciando dolcemente Spencer. Con le loro fronti poggiate l’una all’altra, quest’ultimo riuscì a sentire il respiro di Nick sul viso, quindi chiuse gli occhi solo per un momento, per assaporare quella sensazione prima di essere di nuovo solo.

    Con un sospiro sulla guancia, il petto di Nick risuonò di parole che Spencer non riuscì ad afferrare. Si ritrasse per guardare Nick ma il ragazzo non stava parlando più. Spencer iniziò a sentirsi un po’ imbarazzato, nudo sopra un totale estraneo che stava lì a fissarlo. Dopo un altro lungo minuto di silenzio, Nick spinse sulle sue spalle e cercò di toglierselo di dosso.

    “Ma che cazzo, amico? Ti ho detto che devo tornare al lavoro. Il mio capo si arrabbierà,” disse prima di dare la schiena a Spencer e di raccogliere l’uniforme spiegazzata dal pavimento. Poiché Nick aveva allontanato il viso da lui, non poteva dire se stesse parlando mentre si vestiva, ma il suo viso sembrava muoversi in modo tale da supporre che lo stesse facendo. Invece di cercare di capire, Spencer si sedette semplicemente al lato del letto e attese.

    “E allora?” chiese mentre si voltava, rivolgendo uno sguardo pieno di aspettativa a Spencer. Dio, perché non te ne vai? Spencer inclinò la testa di lato per cercare di capire quello che il ragazzo gli aveva chiesto. Ci doveva avere messo troppo, perché Nick disse qualcosa, forse che lui era stupido, prima di prendere le scarpe dal pavimento e avviarsi verso la porta. Spencer si chinò e afferrò i pantaloni dal pavimento. Con violenti strattoni se li rimise addosso e poi picchiettò sulla spalla di Nick per fargli alzare lo sguardo.

    “Non. Sono. Scemo.. Sono. Sordo., Stronzo.,” gli disse Spencer parlando lentamente e in maniera misurata come gli era stato insegnato fin da piccolo. Solo per essere sicuro che il ragazzo avesse capito, indicò col dito il suo orecchio e scosse la testa. Il volto di Nick fu attraversato da una nuova consapevolezza, che fu sostituita velocemente da rimorso e vergogna. Bene.

    “Scusa,” rispose Nick e si portò le mani al petto per dimostrare la sua sincerità. Wow, davvero? “Devo andare.” Il suo modo di parlare eccessivo rese difficile a Spencer leggergli le labbra ma, peggio ancora, usò due dita per mimare il camminare e poi indicò la porta come se Spencer fosse troppo tardo per capire che se ne stava andando. Porca puttana.

    Spencer aprì la porta della piccola stanza da letto e con la mano indicò a Nick di precederlo. Il ragazzo andò a prendere il piccolo dispositivo per le firme e uscì dalla casa in un baleno. Non salutò nemmeno Spencer, dalla fretta che aveva di allontanarsi dallo strano.

    Spencer si appoggiò alla porta e si chiese come sarebbe stato avere un ragazzo che andasse oltre la sordità e lo vedesse davvero per quello che era.


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    Edited by Sakurai1976 - 28/1/2018, 08:30
     
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    Una storia, quella dell'"esperienza" di Aaron, dalle tinte molto forti... credo che sopravvivere fisicamente e soprattutto mentalmente sarebbe impossibile per molti, ed infatti nella lettura traspare tutto il senso di morte dell'anima che si porta dietro e tutto il suo sentirsi spezzato. L'incontro con Spencer è provvidenziale, per Aaron ma anche per Spencer stesso, due ragazzi che si sono sentiti da sempre alieni riescono a trovare l'uno nell'altro la forza di andare avanti. Certo il percorso di Aaron non è sicuramente dei più facili, ma con Spencer e la sua dolcezza infinita e il padre di quest'ultimo con i suoi metodi di cura si può scorgere una piccola luce nella stanza buia che è il cuore di Aaron.
     
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  4. Yukino
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    Leggendo la mia mente aveva pensato il peggio... Ma non pensavo che potesse capitare peggio del peggio. Un libro molto intenso, che ti fa soffrire e sorridere per i primi passi, per le piccole vittorie.
    Amo questo libro, così intriso di dolore ma anche di speranza. Bellissimo!
     
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3 replies since 24/3/2015, 14:38   46 views
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